Vito Cracas

Il turbinio vorticoso delle forti sensazioni, materializzate nel colore, comunica il riverbero emotivo della sua inconscia, prorompente, esasperata passionalità. E’ dai contrasti cromatici, accesi, teatralmente visualizzati, prendono forma e dimensione le conturbanti espressioni dialogiche dei sentimenti, spesso concorrenti nell’atavica e alterna sfida del bene e del male, per cui diventa spontaneo porsi degli interrogativi esistenziali; essere sempre e rigorosamente se stessi, nelle accezioni delle sensazioni mutate dai luoghi plasmati dal tempo, o adeguarsi, nell’apostasia delle tecniche che rendono “palpabili” le mescolanze forti che flagellano il torpore e danno rilevanza alle situazioni rappresentate? Iacono pone il problema lasciando intravedere il “capo della matassa” a chi non riesce, con le sue forze, a traghettarsi fuori dalla sua psiche turbata e spesso condizionata dagli eventi: una “presenza” multiforme, secondo lo stato d’animo percettore, codificata nella tridimensionalità avvertita dai sensi.

Chi ritiene di non “capire” tali espressioni – che non sono la pedissequa lezione del bon ton dell’arte riprodotta per la consueta pigrizia fruitiva a cogliere il nuovo e il diverso, a meno che questa “riproduzione” non venga “consacrata” dai critici, o pseudo tali, i “sacerdoti interpreti” dell’arte contemporanea – non riesce a distinguere la reale differenza tra creatività espressa e la riproduzione ripercorsa. Il “fare arte”, infatti, non è la pedissequa riproduzione temporale del codificato “mestiere pittorico” ma è il trasmettere quelle sensazioni che, nella creatività espressa cromaticamente si identificano con il proprio recondito ed inatteso stato d’animo. Così la bellezza si fa carne palpabile, l’attesa un bisogno disperato da soddisfare, il viaggio l’eterna migrazione di un essere proteso verso l’orizzonte che lo attrae e di cui non avverte, con il richiamo, il timore, che spesso rasenta la paura, dell’imponderabile incerto. E le atmosfere, rarefatte o cupamente dense, silenti o urlante con il vento, bramate nella lussuria pubere che le “eleva” a “riserva di caccia” attestano l’inquietudine del cuore, il dramma della lontananza, la bramosia di far propri i tormenti dell’altro. Cui prodest? Giova a chi, per pigrizia, non osa scandagliare l’intimità dei sogni, della mente, della carne, eppur ne rimane conquistato, ma anche a chi, comprendendo, ci si ritrova, nel tormento della quotidianità. A chi, ieri, gli “preagnosticava” strepitosi successi credendo che questi – da soli – bastassero, per l’accenno del colore o per forti sensazioni di toni, a catturare l’attenzione si deve porre la domanda, remota in ogni “io”, dai più attesa: come si può entrare in simbiosi con l’opera se non la si comprende? E se non si potesse decretare il successo e non si riuscisse a stabilire quel contatto che fa “capire”, perché ostinarsi a denunciare la (propria) ignoranza “denigrandola” agli occhi della fruizione? E’ la vibrante spatola a rendere percettibili, in un gioco variegato, che richiama anche il crepuscolare, le intime essenze dei pigmenti cromatici, nuove “tessere” di uno specifico linguaggio pittorico. Ed è nell’attesa della tridimensionale incastonatura degli “amori finiti” che si comprende la poetica evidenziata, senza veli, dall’artista. Una rivelazione che fa percepire, quasi tattilmente, la lussureggiante natura piegata al desiderio in una fusione totalizzante: e questa è la missione di Iacono che, inconsciamente, pur potendo avere, preferisce scientemente dare per la gioia inappagabile di “comunicare” quel dono.