Francesco Iacono opera una ricerca di matrice neo-espressionista, promanazione della sua originalissima tecnica pittorica “digitale”, che fa singolarmente a meno dell’uso di pennelli consistendo nell’applicazione del colore sul supporto direttamente dal tubetto e alla sua “modellazione” (come fosse creta) con le dita (sic!), realizzando una pittura definibile, sul piano della tecnica, “digitale” assai più propriamente che non le nuove tecnologie elettroniche mediali (computer- e video-art), aleatoriamente “inventando” e metodologicamente adottando la pittura “per forza di levare” (espressione che adoperò Michelangelo, in riferimento però alla scultura in contrapposizione alla plastica), intendendo la pittura non come “addizione” di colore al supporto, bensì come “sottrazione” di un ideale velo celante la forma già inclusa nel supporto stesso, già impressa sulla superficie; non come conferimento di forma, ma liberazione di forme preesistenti dalla patina della “cecità” dell’osservatore, che solo affidandosi alla guida dell’artista può scorgere ciò che non è palese all’osservazione ordinaria, educandolo questi maieuticamente a “vedere” il mondo e a prenderne piena coscienza. Conferendo così all’artista un nuovo ruolo: non più quello di creatore ex nihilo, ma di acuto osservatore che si limita ad “assecondare” le necessità comunicative della tela liberandone i messaggi. Iacono ha adottato e codificato questa personalissima tecnica verso la fine degli anni Settanta mai più abbandonandola, avendo trovato in essa il più efficace mezzo di trasmissione delle proprie emozioni: un’incontenibile necessità di trasmettere la propria visione del mondo, di comunicare il proprio malessere (e nel contempo il proprio ottimismo) nell’intento di produrre lo stesso sgomento, di stimolare la riflessione, di porre di fronte alla realtà, di “svegliare” la coscienza, sopita e indifferente, dell’umanità di fronte alle sue stesse nefandezze. Un’arte permeata di un’intensa “religiosità laica”, che ha le proprie radici nella condivisione del dolore del mondo e nella speranza in un futuro migliore; un sentimento “religioso” che non fa esplicito riferimento ad alcuna professione di fede, ma che si manifesta in ogni opera dell’artista, e che vede il miracolo della Concezione in ogni maternità, l’evento della Natività nella nascita di ogni bambino, il Cristo in ogni uomo sofferente e la sua Passione in quella di ogni vittima di guerra, la Resurrezione nella fiduciosa speranza nel futuro. Un senso di pietà e di interpretazione della tragedia umana in chiave cristiana massimamente espresso in una recente opera scultorea in cui la croce (con inedita e originale soluzione) è “sostegno” di Cristo nella Via Crucis, prima di divenirne il “supplizio”; assumendo dunque il valore simbolico di “pilastro” della Cristianità e dell’umanità intera, mezzo di tortura che ne diviene opposizione, simbolo della Passione che diviene simbolo della Missione (la Croce come “Supplizio e sostegno dell’Umanità”). L’artista adopera l’originale tecnica con notevole efficacia e maestria nei suoi melograni “esplosi”, masse di colore che emanano particelle di energia cromatica in ogni direzione; nelle sue “Ninfee”, palese ma originale riferimento e omaggio a Monet; negli immancabili (per la sua indole di uomo sensibile ed emotivamente partecipe dei disagi dell’umanità) tributi alla vita nella rappresentazione disperatamente “urlata” delle tragedie del mondo (e il costante dualismo “Bene versus Male” in certa sua produzione pittorica è palese soprattutto nel sapiente uso simbolico e conativo dei colori, dialetticamente freddi e cupi per gli sfondi, caldi e vividi per i soggetti in primo piano, a significare l’essenza di positività connaturata nell’uomo, pur facendovi da contraltare la perenne condizione tragica del mondo; ne è conferma la varietà dei soggetti: clowns e ritratti muliebri dai toni sommessi o giocosi, si affiancano alla sofferta rappresentazione degli orrori della guerra, che l’artista puntualmente registra a ogni suo ineluttabile manifestarsi: in Rwanda, in Somalia, nei Balcani, in Medio Oriente, sino alla distruzione delle “Twin Towers”). Iacono è artista dal segno forte, incisivo ed espressivo, evocatore di un nuovo, intenso espressionismo riconducibile a Munch e ai fauves, e che degnamente avrebbe potuto accostarsi al gruppo della Transavanguardia, con alcuni esponenti della quale condivide queste e altre peculiarità, non ultimo il gusto per la citazione dotta, soprattutto di altri artisti, quelli più amati e ammirati; una citazione, però, non fine a sé stessa, non sterile, ma sempre improntata all’espressione personale: “Il grido” è palesemente una citazione de “L’urlo” di Munch, ma ne sovverte la condizione psicologica: se “L’urlo” è originato da un insopportabile stato di disagio interno e da un’incontenibile necessità di sfogo verso l’esterno, “Il grido” origina dall’impossibilità di accettare le tragedie del mondo, scaturisce dall’esterno, dirompe contro l’umanità indifferente nei confronti della sofferenza altrui, “urta” impetuosamente contro il machiavellico cinismo della “ragion di stato” e dei suoi fautori politici. Cita anche il Guttuso più celebre, in “Vucciria al risveglio”, opera del 1997 in cui non è però ravvisabile il linguaggio del maestro neorealista, avendola Iacono “tradotta” nel proprio, creando un’opera assolutamente diversa e di pari dignità. Cita e riprende abilmente la mirabile tecnica e il virtuosismo di Guccione, ma laddove questi immortala i litorali delle coste iblee fermandone nel tempo splendore e bellezza in atmosfere candide e pacificanti, Iacono ne rileva il crescente stato di degrado puntando il suo ideale obiettivo fotografico sui rifiuti che rendono i nostri mari discariche e le spiagge pattumiere, e facendo apparire i noti soggetti guccioniani luoghi sempre più esotici, sperduti e introvabili, paradossalmente lontani da noi che li viviamo. L’opera altrui, radicalmente rivisitata e reinterpretata, costituisce dunque null’altro che un “pre-testo” per la creazione di un’opera assolutamente propria, autonoma, nuova, diversa, marcata da gestualità, cromatismo e dinamismo distintivi e inequivocabilmente ed esclusivamente attribuibili alla creatività dell’artista vittoriese. In ogni opera pittorica i colori si esaltano in un irrefrenabile, avvolgente tourbillon, quasi una sfida alla policromìa dell’arcobaleno, trovando piena compiutezza nella già citata “Vuccirìa al risveglio”, uno dei capolavori ormai “storici” dell’artista, che resta fedele alla propria poetica anche nelle pur acrome sculture, grazie all’energia del vorticoso “tocco” di un’artista che ha in Eolo il proprio dio pagano, e numerose Muse al suo fianco, distinguendosi anche nella poesia. Il linguaggio mantiene piena coerenza nella bi- come nella tri-dimensionalità, acquisendo tuttavia nella seconda maggior rilevanza nella specifica dimensione della “modellazione eolica”: le dita di Iacono (artista “digitale” ante litteram anche in scultura) modellano l’argilla come il vento modella le rocce erodendole; ma con grazia, “scivolando” sulla superficie accarezzando la materia. Il “vento”, o più propriamente “soffio” creativo di Iacono è la matrice non solo esecutiva e puramente manuale, ma altresì “di poetica” dell’artista, che, fedele al suo stile, conferisce all’intera produzione una rara coerenza e un’unitarietà filologica esemplare. Una coerenza stilistica che si presenta perfezionata in massima misura (e assai difficilmente ulteriormente perfezionabile) nella produzione scultorea in corso d’opera, in cui le differenze tematiche (che -in linea con la varietà delle trattazioni dell’artista- spaziano dalla maternità alla femminilità, dalla bellezza della natura alla selvaggia potenza mista alla poderosa bellezza del cavallo, sino al tema sociale e umanitario) trovano amalgama e continuità di discorso e stile nella rappresentazione del movimento pur nella staticità di taluni soggetti, che acquisiscono quindi, anch’essi, un’imprevedibile forza motoria che libera le opere dai limiti della “pesantezza” scultorea. Vincendo l’antonomastica resistenza del bronzo, la materia si assoggetta alla dinamica plastica del “soffio” modellatore dell’artista, che conferisce al metallo la grazia della leggerezza. L’intera produzione dell’“artista del vento” è infatti caratterizzata dalla straordinaria capacità di conferire l’illusione del movimento e un’intensità dinamica alle figure con una retorica visuale in contrapposizione al linguaggio michelangiolesco caratterizzato dal dinamismo muscolare, dalla tensione degli arti e dalla torsione delle membra: le figure di Iacono si muovono “danzando” leggiadre nell’aria, come sostenute da invisibili fili anziché da strutture scheletriche e muscolari. I movimenti paiono favoriti e assecondati (piuttosto che originati) da percettibili forze eoliche che smuovono e agitano (ma sempre con “leggerezza” e leggiadria) le vesti, e finanche i corpi, ignorandone la gravità, negandone la consistenza materica per esaltarne la dimensione spirituale: nell’empito creativo di Iacono il vento acquisisce valenza figurale dello spirito, visus rappresentativo dell’animo, del sentimento, dell’emozione: è “soffio vitale”. Una scultura in particolar modo, “Soffio” (titolo non casuale d’un’opera emblematica), costituisce la formalizzazione e materializzazione della poetica esecutiva e linguistica di Iacono, che rappresenta il frequente e sentitissimo tema della maternità nell’accezione più pertinente e naturale: una donna che regge in braccio il proprio figlio, impaurito e infreddolito, proteggendolo da una violenta bufera che contorce le vesti e con esse le figure in un tourbillon ascensionale di eccezionale resa plastica ed efficacia espressiva; come ascensionale è il processo retorico dell’opera, che gradualmente progredisce dal dinamismo intenso, finanche violento che agita le vesti della donna nella parte inferiore dell’opera, sino a “diluirsi”, affievolirsi in un delicato, carezzevole “soffio” nella parte superiore, in corrispondenza del fulcro conativo, il tenero e amorevole abbraccio. Vesti e corpi si fondono in un tutt’uno fisico, un abbraccio unificante nel segno dell’amore materno e filiale: l’unità donna-bambino è l’unità delle menti e dei cuori nella diversità dei corpi, che qui si fondono a suggerire retoricamente l’unità/fusione totale. L’opera è piena conferma della meravigliosamente contraddittoria capacità di Iacono di “deformare” il corpo umano pur non privandolo della sua naturale bellezza: una deformazione originata dal (e che suggerisce il) movimento, mantenendo sempre le perfette proporzioni dimensionali e formali, sempre coerentemente fedele alla concezione artistica primaria dell’autore: l’arte come esaltazione della bellezza pur nella trattazione d’ogni condizione umana e nell’espressione d’ogni emozione, anche le più mortificanti della dignità e avvilenti della sensibilità. “Soffio” rappresenta uno dei vertici della più recente produzione dell’artista, trovando anche un perfetto e complementare pendant in un lavoro della parallela serie (anch’essa in corso di realizzazione) di pastelli incentrati sul tema delle “ombre”, accomunati dalla compresenza del soggetto e di suoi diafani, evanescenti “ectoplasmi”, materializzazioni dell’ombra del soggetto stesso (o sue “de-materializzazioni”…): il pastello pendant di “Soffio” è popolato da evanescenti ed esili sagome originate dalle proiezioni della scultura, singolarmente “accese” da un intenso rosso, innaturale (per un’ombra) quanto espressivo. La scultura trova nel relativo e inscindibile pastello un completamento ideale e totale, e la piena sintesi della poetica di Francesco Iacono.