Con l’invalsa applicazione delle nuove tecnologie in ambito artistico, sempre più frequentemente la critica fa riferimento alla cosiddetta arte “digitale”, che si identifica con la produzione di opere di video e computer-art, fondate sull’utilizzo del linguaggio elettronico in opere immateriali, intangibili, fisicamente inconsistenti: apparentemente impossibile, quindi, un accostamento dell’aggettivo alle tecniche artistiche tradizionali (disegno, pittura, scultura); tale assunto apparentemente intangibile è stato non programmaticamente minato da Francesco Iacono, artista polivalente, fedele ai media tradizionali ma proteso alla sperimentazione anche delle nuove tecnologie applicate all’arte (intendendo la sperimentazione estetica come ricerca innovativa non nell’ambito della storia dell’arte, ma in seno alla produzione e al pensiero estetico personale del singolo artista): il suo incontenibile bisogno di espressione, che lo spinge a interpretare e immortalare il mondo che lo circonda, lo ha casualmente indotto a scoprire un suo linguaggio, singolare ed efficace: privato occasionalmente di quelle appendici “indispensabili” per i pittori che sono i pennelli, si è fornito d’una tecnica personale che gli consente un’espressione più immediata, sentita ed emotiva di quanto non gli potesse consentire la pittura tradizionale con gli stessi, per sopperire alla mancanza dei quali iniziò, con esito felice quanto casuale, ad applicare il colore sul supporto direttamente dal tubetto e a “modellarlo” -come fosse creta- con le dita (sic!), realizzando una pittura definibile, sul piano della tecnica, “digitale” assai più propriamente che non le predette nuove tecnologie. Iacono, dipingendo “digitalmente”, ha aleatoriamente “inventato” e metodologicamente adottato la pittura “per forza di levare” (espressione che adoperò Michelangelo, in riferimento però alla scultura in contrapposizione alla plastica), intendendo la pittura non come “addizione” di colore al supporto, bensì come “sottrazione” d’un ideale velo celante la forma già inclusa nel supporto stesso, già impressa sulla superficie: la pittura non come conferimento di forma, ma liberazione di forme preesistenti dalla patina della “cecità” dell’osservatore, che solo affidandosi alla guida dell’artista può scorgere ciò che non è palese all’osservazione ordinaria, educandolo questi maieuticamente a “vedere” il mondo e a prenderne piena coscienza. Il ruolo dell’artista non è dunque quello di creatore ex nihilo, ma di acuto osservatore che si limita ad “assecondare” le necessità comunicative della tela liberandone i messaggi, come lo stesso Iacono (anche poeta) espresse in un suo componimento del 1978, “L’aurora”: «[…] bianca / è una tela che aspetta dal suo pittore / il tocco del colore.». Iacono ha adottato e codificato questa personalissima tecnica verso la fine degli anni Settanta mai più abbandonandola, avendo trovato in essa il più efficace mezzo di trasmissione delle proprie emozioni: un’incontenibile necessità di trasmettere la propria visione del mondo, di comunicare il proprio malessere –e nel contempo il proprio ottimismo- nell’intento di produrre lo stesso sgomento, di stimolare la riflessione, di porre di fronte alla realtà, di “svegliare” la coscienza, sopita e indifferente, dell’umanità di fronte alle sue stesse nefandezze. Un’arte permeata di un’intensa “religiosità laica”, che ha le proprie radici nella condivisione del dolore del mondo e nella speranza in un futuro sempre migliore: un sentimento “religioso” che non fa esplicito riferimento ad alcuna professione di fede, ma che si manifesta in ogni opera dell’artista, e che vede il miracolo della Concezione in ogni maternità, l’evento della Natività nella nascita di ogni bambino, il Cristo in ogni uomo sofferente e la sua Passione in quella di ogni vittima di guerra, la Resurrezione nella fiduciosa speranza nel futuro…. Il costante dualismo “bene vs. male” in certa sua produzione pittorica è palese soprattutto nel sapiente uso simbolico e conativo dei colori, dialetticamente freddi e cupi per gli sfondi, caldi e vividi per i soggetti in primo piano, a significare l’essenza di positività connaturata nell’uomo, pur facendovi da contraltare la perenne condizione tragica del mondo. Ne è conferma la varietà dei soggetti: clowns e ritratti muliebri dai toni sommessi o giocosi, si affiancano alla sofferta rappresentazione degli orrori della guerra, che l’artista puntualmente registra a ogni suo ineluttabile manifestarsi: in Ruanda, in Somalia, nei Balcani, in Medio Oriente, sino alla recente distruzione delle “Twin Towers”. Iacono è artista dal segno forte, incisivo ed espressivo, evocatore di un nuovo, intenso espressionismo riconducibile a Munch e ai fauves, e che degnamente avrebbe potuto accostarsi alla corrente della Transavanguardia, con alcuni esponenti della quale condivide queste e altre peculiarità, non ultimo il gusto per la citazione dotta, soprattutto di altri artisti, quelli più amati e ammirati; una citazione, però, non fine a sé stessa, non sterile, ma sempre improntata all’espressione personale: “Il grido” è palesemente una citazione de “L’urlo” di Munch, ma ne sovverte la condizione psicologica: se “L’urlo” è originato da un insopportabile stato di disagio interno e da un’incontenibile necessità di sfogo verso l’esterno, “Il grido” origina dall’impossibilità di accettare le tragedie del mondo, scaturisce dall’esterno, dirompe contro l’umanità indifferente nei confronti della sofferenza altrui, “urta” impetuosamente contro il machiavellico cinismo della “ragion di stato” e dei suoi fautori politici; Iacono cita anche il Guttuso più celebre, in “Vuccirìa al risveglio”, opera del 1997 in cui non è però ravvisabile il linguaggio del maestro neorealista, avendola Iacono “tradotta” nel proprio, creando un’opera assolutamente diversa e di pari dignità; cita e riprende abilmente la mirabile tecnica e il virtuosismo di Guccione, ma laddove questi immortala i litorali delle coste iblee fermandone nel tempo splendore e bellezza in atmosfere candide e pacificanti, Iacono ne rileva il crescente stato di degrado puntando il suo ideale obiettivo fotografico sui rifiuti che rendono i nostri mari discariche e le spiagge pattumiere, e facendo apparire i noti soggetti guccioniani luoghi sempre più esotici, sperduti e introvabili, paradossalmente lontani da noi che li viviamo. L’opera altrui, radicalmente rivisitata e reinterpretata, costituisce dunque null’altro che un “pre-testo” per la creazione di un’opera assolutamente propria, autonoma, nuova, diversa, marcata da gestualità, cromatismo e dinamismo distintivi e inequivocabilmente ed esclusivamente attribuibili alla creatività dell’artista vittoriese.