L’impianto scenico è semplice, lineare, come detta tutta la sua poetica di contemplazione, l’atmosfera di luce radente e silenziosa nata in una ragusanità dalla pietra bianca e dai colori ammalianti, diffusi in tutte le opere di Francesco Iacono, che fanno un mondo, dalle mille e mille sfumature, una ricchezza senza fondo, che simula la danza delle ore e delle stagioni, come in un grande schermo moltiplicato, come di un virtuoso contagio che si articola, diventa linguaggio, di cose inanimate che diventano anima, prendono il respiro del vento, di cui si lasciano volteggiare nel cielo, oppure resistono, come carrubo, da cui si lasciano attraversare, come aria.
Per dirla con Gesualdo Bufalino, si tratta di una magia che viaggia senza bagagli che somma gli anni della vita e pensa all’eterno, per pensarla come Quasimodo, per vederla come una grande danza di miti delle stagioni e dei riti delle persone, nelle cangianti mimesi e nelle accattivanti combinazioni, appena sfiorate del sibilo che include la sera e simula la notte, morte apparente di tutti i colori, del dubbio, di ogni certezza, mentre l’invisibile è lì dietro l’angolo, attende. Attende si, una mano che sappia descrivere ciò che la mente vede, che l’occhio suggerisce come esempio di vita intorno a noi, proponendosi come colpo d’ala e abolizione di ogni segreto del detto, non detto, contraddetto, a cui adeguare la nostra stilistica del gesto, il nostro atteggiarsi a re del creato, perché in ogni momento può spuntare, l’imprevisto, di quello che è stato sempre lì, ma non l’abbiamo mai visto.
E l’ artista s’accosta a questa eventualità, come lo fa un esploratore, un cacciatore di immagini, pronto a carpire immagini, per offrirle a noi, in forma di un uno che è fatto di tanti, di accostamenti che fanno l’imprevisto, il punto di osservazione, il taglio, ciò che fa da spartiacque e unisce e separa, come una vita, che respira, inebria. Il suo occhio sornione bada ai particolari, l’ingrandisce, li rende interpreti di storie scritte sul nulla, indelebili come sogni che non conoscono alba e così che vengono a concentrarsi i suoi nuclei ispirativi, trasformati in emblemi e marchi in una natura che ha imparato ad assaporare architetture e civiltà, rimanendo sempre uguale a se stessa, vergine, come una “presenza” boschiva, come un’allucinata bellezza che incombe dal canto d’una cicala, dal colorire di un campo d’iblea natura, mentre s’odono voci mortali che parlano a voci di dei.
Il lavoro sulla differenza porta a questo, ad un senso generale della riconoscibilità, che diventa nome e immagine della cosa, in nome del suo rovesciamento metaforico, obbediente alle esigenze di rappresentazione, che subordina alle naturalità, facendo assumere ad ogni millesimo delle opere, delle caratteristiche in positivo, che sparigliano i contorni e così vengono a stabilire dei campi di gioco del colore, turbato qui e là, da nebulose e toni ventosi.
Tutto è, qui, energia di colori, stesura e tessuto, regno leggero e profondo, frammento, intensità e rarefazione, sublime del cielo e concretezza della terra, graduazione della luce, in guizzi taglienti, correnti marine, cieli profondi di natura che s’ è fatta simile alla stessa sostanza dei sogni, visione toccata con mano, accarezzata, spalmata, resa corpo, come si devono rendere i corpi d’un innamoramento, d’una passione di un’arte.