Francisco José Goya, grandissimo pittore spagnolo nato in Aragona a Fuendetodos il 30 marzo 1746, nella terza parte dei suoi quaderni intitolati “Capricci”, sulla scia della concezione critica illuminista, accanto allo schizzo di un artista addormentato, scrive: “Il sonno della Ragione genera i mostri”. L’aforisma, ineccepibile sul piano logico e lessicale, nell’arte ha però anche il suo rovescio di medaglia, se è vero, come notò il Sinisgalli a proposito delle opere di Domenico Cantatore, pittore fecondo di Ruvo di Puglia, che, nelle sue opere dalla cromia rabescata, “non ha mai chiesto soccorso all’intelligenza o al gusto, non ha mai messo al mondo dei mostri o dei feticci”. Eppure fece arte nel senso più autentico della parola! I mostri nelle estrinsecazioni artistiche (specie nei nostri tormentati giorni!) possono quindi nascere dalla cloroformizzazione della ragione come dalla estrema fertilità delle capacità raziocinanti sintonizzate su lunghezze d’onde di mediocrissimi sottoprodotti di freddi elaborati mentali. Francesco Iacono, pittore e scultore vittoriese, vincitore di prestigiosi premi nazionali ed internazionali, pur facendo sua, in una grande tela dipinta sul finire del secolo scorso, la lezione espressionista della tempera del 1893 del pittore norvegese Edward Munch intitolata l’ “Urlo”, e pur vivendo profondamente talune tematiche estetiche avanzate dell’arte moderna (pittura e scultura), tuttavia è ben lontano dal Sabba dei mostri generati dal sonno della ragione o dalla esaltazione aberrante dei prodotti mentali molto frequenti in artisti d’avanguardia. L’universo artistico del pittore-scultore vittoriese è un microcosmo vibrante di colore – luce, di svolazzi di bronzo, dall’ “eloquio” ora elegiaco e serenante ora drammatico e pietrificante, espresso in una dicotomia linguistica fatta a volte di lunghi silenzi magmatici, a volte di notazioni urlate fino allo spasimo. Una rappresentazione figurativa confortante, non sempre scevra (specie nei bronzi) di sensualità sottile, vista e sentita in chiave d’intimismo lirico, sospesa nel tempo o per essere più esatti addirittura senza tempo. L’iniziazione all’arte per Francesco Iacono fu nella fase di avvio esclusivamente pittorica, agli inizi degli anni ’70. La sua caratterialità di stile avvenne verso la fine degli anni ’70, mentre prestava servizio di leva. “Un giorno – racconta – all’improvviso, mi si affacciò alla mente, in una fusione di cielo mare e terra, un incantevole volto di donna. Non avevo con me né tavolozza né pennelli: mi trovavo solo una tela e alcuni tubetti di colori comprati giorni prima con l’intendimento di portarli a casa alla prima licenza. Malgrado ciò, mi sedetti sopra una brandina situata vicino alla finestra, in una stanza vuota e scarsamente illuminata, e spremetti i colori nel vassoio della mensa, usando per spargere i pigmenti colorati, le dita. Nacque così “Incanto” , una tela alla quale tengo moltissimo”. “Fu quello – precisa Francesco Iacono – l’inizio personale della mia attività artistica. Da allora, il dipingere con le mani, senza l’ausilio dei pennelli, mi provoca una stupenda emozione. A tal punto che, quando guardo una tela vuota, sento che l’opera è già composta su di essa, ma è soltanto coperta da un velo invisibile che io asporto con lo spargere i colori con le dita allo scopo di trasmettere il messaggio del mio interiore sentire al lettore attento”. Il rapporto opera-artista è così tattile, magmatico, vibrante, fisicamente sentito; ed il dramma interiore dell’artista, la sua ispirazione, i suoi impulsi creativi si oggettivizzano in sintonia con lo stato emozionale nella realizzazione. Allora, avvalendosi di una tavolozza impazzita di colori e con forme sfrangiate e poco definite, l’artista, irretito dal “daimon” della creazione, urla tutte le violenze ed i misteri del mondo: le stragi del Ruanda, lo sguardo dei bimbi orfani di una Sarajevo distrutta, il volto che non c’è più della giornalista assassinata Ilaria Alpi, gli orrori della guerra del Golfo Persico, la distruzione delle torri gemelle di New York, la insanguinata guerra in Palestina. “Caratteristica dei miei dipinti – confessa Francesco Iacono accennando al suo linguaggio espressivo – è la non definizione delle forme, la forza cromatica dei colori e la presenza quasi sempre del vento che provoca il movimento. Prediligo il figurativo nel quale trasferisco, il più delle volte, il fascino e l’espressione sensuale della donna, con colori accesi e tumultuosi, dove il blu non manca mai ed i capelli lunghi e sciolti al vento trasmettono un tocco di fibrillante calore”. Un mondo espressivo e poetico che, anche dal punto di vista dei contenuti, sarebbe stato molto caro a Leonardo Sciascia, lo scrittore di Racalmuto che nell’arte teneva molto alla dichiarata condanna della violenza. La vocazione artistica di Francesco Iacono, però (ne abbiamo parlato per inciso all’inizio definendo l’artista pittore-scultore), non è soltanto pittorica; da un decennio a questa parte è rivolta anche e in misura non indifferente alle opere in terracotta fuse nel bronzo, come accadeva frequentemente tra gli artisti più prestigiosi dell’epoca rinascimentale. In queste vigorose eppur garbate opere bronzee che Francesco Iacono ci sottopone è esplicito il rifiuto a mettere al mondo non soltanto mostri e feticci ma anche tutto ciò che ha riferimento agli orrori ed ai mali che giornalmente passano nella insanguinata fogna della cronaca. Ed è esplicita anche la commiserazione per una triste progenie di creature dolenti e ferite, di “popoli che fuggono dalla crudeltà dei propri simili cercando ospitalità in altri paesi”, di profughi ed emarginati. “Fuga dalla paura”, “Kosovo”, “Uno sguardo all’Eritrea” sono palesi denunce di uno stato generale di disagio e di un’interiore ribellione alle ingiustizie che veicolano costantemente nel mondo. Condanna esplicita della violenza, dunque. Ma affermazione esaltante – in termini contenutistici di estrinsecazione artistica – di valori diametralmente opposti, primo fra tutti l’Amore: “quello di una mamma per il proprio piccolo e quello che ogni essere umano dovrebbe avere per il proprio simile”. Pur nella tristezza di un mondo sempre più disumano e vano, Francesco Iacono scultore dunque non si arrende al male e vagheggia approdi più sicuri in barene tranquille, effondendo la sua gioia di vivere nel gesto beato di una madre (“Piroetta”) che solleva al cielo la sua creatura, nella felicità raccolta di una donna (“Ninna nanna”) che dondola il figlioletto, nella compiaciuta piacevolezza di una giovanetta che si aggiusta la calza scoprendo la nudità delle sue gambe diritte e appetitose. I bronzi di Francesco Iacono (autore anche di quattro pregevoli medaglioni sulle varie stagioni dell’anno e altri manufatti) sono prevalentemente preziose statuine che recano come note espressive caratteriali svolazzi di vesti, sbattimenti esaltanti di luce, scorci di nudità femminili a tutto tondo, rigorose forme in movimento. Una mini – galassia di estrinsecazioni artistiche che intridono di scintillanti le iridi e parlano alle menti ed ai cuori un linguaggio piano e accessibile senza creare mostri goyani, ma trovando l’ “ubi consistam” nella condanna della violenza e nella ricerca dell’Amore.